CINA STRAGE DEI CANTIERI, CHIUDERANNO IN 500
Cinquecento cantieri navali destinati a sparire nel giro di un anno, forse meno. Molti altri – in questo caso fare previsioni è troppo azzardato – che si trasformeranno nello stesso periodo da costruttori a demolitori. In Cina perdere tempo è vietato. E così, alla crisi profondissima dello shipping, si è deciso di rispondere con una autentica controrivoluzione.Talmente rapida da lasciare senza parole anche la tutt’altro che impreparata platea di armatori e operatori marittimi riuniti alMare Forum di Sorrento. «Quantificare il numero di cantieri navali cinesi è sostanzialmente impossibile – spiega Ugo Salerno, numero uno del Rina e tra i principali relatori del Forum – Di sicuro sappiamo che un terzo delle strutture, stiamo parlando di circa cinquecento cantieri, è destinato a fallire. Il motivo è semplice: gli ordini, dopo il boom degli anni scorsi, sono precipitati ai livelli minimi. Oggi la sovracapacità produttiva mondiale, asiatica soprattutto, è un problema enorme.
E non parliamo di un fenomeno passeggero: le previsioni del Bimco indicano con chiarezza che dal tunnel dell’overcapacity non si uscirà prima del 2020».
E non parliamo di un fenomeno passeggero: le previsioni del Bimco indicano con chiarezza che dal tunnel dell’overcapacity non si uscirà prima del 2020».
In Cina lo sanno, e si stanno attrezzando a modo loro.
Con una valanga di fallimenti e altrettante riconversioni: se da una parte gli armatori hanno smesso di ordinare, dall’altra hanno iniziato a demolire la parte più datata della flotta. «Prima della crisi – racconta l’armatore Giuseppe Bottiglieri – ci si pensava due volte prima di mandare una nave a demolizione. Al limite si provava a ripararla, magari dopo averla tenuta in disarmo per qualche periodo. Oggi, a conti fatti, conviene scegliere la demolizione: un’opzione che moltissimi armatori stanno prendendo in considerazione. Durante il mio ultimo viaggio a Dalian ho scoperto che uno dei più grandi cantieri cinesi ha deciso di abbandonare le costruzioni e concentrarsi sullo smantellamento: significa che la rivoluzione in corso è davvero imponente». Demolire, peraltro, è una delle parole più pronunciate al Mare Forum. «Stiamo qui a parlare di ripresa, di luce in fondo al tunnel, di segnali di inversione del mercato – sembra rimproverare ai relatori Giuseppe D’Amato, decano degli armatori – la verità è che le istituzioni mondiali dovrebbero imporre la demolizione del naviglio più vecchio. Che cosa ci stanno a fare navi di più di trent’anni in navigazione? Chi garantisce sulla loro sicurezza? Se vogliamo salvare l’armamento, dobbiamo iniziare da lì. Non mi sembra una strada così difficile da percorrere». La strada, in realtà, è già stata imboccata. Certo: si potrebbe fare di più, magari introducendo regole più restrittive proprio in materia di security. «Ma non dimentichiamo che, in fin dei conti, in questo guaio ci siamo buttati noi», ammette un armatore che preferisce mantenere l’anonimato. «Certo: è arrivata la crisi, forse la crisi più brutta degli ultimi cinquant’anni. Ma siamo stati noi a riempire di ordini i cantieri coreani e cinesi, fino a poco fa. Se oggi abbiamo questo incredibile eccesso di capacità la colpa è anche nostra».
Con una valanga di fallimenti e altrettante riconversioni: se da una parte gli armatori hanno smesso di ordinare, dall’altra hanno iniziato a demolire la parte più datata della flotta. «Prima della crisi – racconta l’armatore Giuseppe Bottiglieri – ci si pensava due volte prima di mandare una nave a demolizione. Al limite si provava a ripararla, magari dopo averla tenuta in disarmo per qualche periodo. Oggi, a conti fatti, conviene scegliere la demolizione: un’opzione che moltissimi armatori stanno prendendo in considerazione. Durante il mio ultimo viaggio a Dalian ho scoperto che uno dei più grandi cantieri cinesi ha deciso di abbandonare le costruzioni e concentrarsi sullo smantellamento: significa che la rivoluzione in corso è davvero imponente». Demolire, peraltro, è una delle parole più pronunciate al Mare Forum. «Stiamo qui a parlare di ripresa, di luce in fondo al tunnel, di segnali di inversione del mercato – sembra rimproverare ai relatori Giuseppe D’Amato, decano degli armatori – la verità è che le istituzioni mondiali dovrebbero imporre la demolizione del naviglio più vecchio. Che cosa ci stanno a fare navi di più di trent’anni in navigazione? Chi garantisce sulla loro sicurezza? Se vogliamo salvare l’armamento, dobbiamo iniziare da lì. Non mi sembra una strada così difficile da percorrere». La strada, in realtà, è già stata imboccata. Certo: si potrebbe fare di più, magari introducendo regole più restrittive proprio in materia di security. «Ma non dimentichiamo che, in fin dei conti, in questo guaio ci siamo buttati noi», ammette un armatore che preferisce mantenere l’anonimato. «Certo: è arrivata la crisi, forse la crisi più brutta degli ultimi cinquant’anni. Ma siamo stati noi a riempire di ordini i cantieri coreani e cinesi, fino a poco fa. Se oggi abbiamo questo incredibile eccesso di capacità la colpa è anche nostra».
«La verità è che dovrebbero esserci incentivi pubblici al rinnovo delle flotte – rilanciaGiancarlo Casani, direttore dell’Ancanap, l’associazione che raggruppa i cantieri navali privati in Italia – Capisco che il momento non sia dei migliori. Ma il nostro è un settore abbandonato da anni. Proprio così: abbandonato. Non parlo solo dei cantieri, mi riferisco all’industria marittima in generale. Stiamo ancora aspettando 120 milioni di contributi degli anni 2001 e 2002: le pare accettabile? Hanno addirittura soppresso la Commissione sulla cantieristica, che non era certo un ente inutile e costava 5 milioni all’anno. Di lire, mica di euro! Abbiamo proposto di riesumarla, accollandoci tutte le spese. Non c’è stato nulla da fare. Sento parlare tanto di innovazione e sicurezza e poi si consente a navi di 50 anni di entrare nei nostri porti: come possiamo fidarci di un Paese così?».
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